PRES. Olla G. REL. Luccioli M.G.
PM. Maccarone V (Conf.)
RIC. Min. Finanze
RES. Garofalo (Avv. Frataccia)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 24 maggio-29 giugno 1995 il Tribunale di Roma condannava Umberto Garofalo al pagamento in favore dell'Amministrazione Finanziaria della somma di L. 67.618.000, comprensiva di rivalutazione, oltre gli interessi legali dalla data della decisione, a titolo di risarcimento del danno per l'occupazione senza titolo dell'area demaniale marittima sita in Terracina, via del Molo, per il periodo dal 21 aprile 1985 al 31 dicembre 1991.
Proposto appello dal Garofalo, con sentenza del 27 ottobre - 21 dicembre 1998 la Corte di Appello di Roma, in riforma della pronuncia impugnata, condannava l'appellante al pagamento della minor somma di L. 7.277.650, comprensiva di rivalutazione monetaria, con gli interessi legali dalla data della decisione.
Osservava in motivazione la Corte territoriale che il primo giudice aveva errato nel recepire la determinazione del danno operata dall'U.T.E. di Latina, non solo perché detto ufficio aveva fornito una motivazione assolutamente generica, non ancorata ad alcun elemento concreto, ma anche perché il criterio di quantificazione dal medesimo utilizzato con riguardo al presunto vantaggio conseguito dall'occupante, peraltro non dimostrato e non precisato, appariva incongruo, dovendo la misura del risarcimento commisurarsi al danno subito dall'Amministrazione per la mancata disponibilità dell'immobile nel periodo di illegittima occupazione. Tale danno, che andava rigorosamente dimostrato secondo i criteri di ripartizione dell'onere della prova, poteva essere liquidato facendo riferimento al canone di concessione corrisposto dal Garofalo per il periodo dal 1976 al 1981, pari ad un canone annuo di L. 885.000, in applicazione analogica dell'art. 1591 c.c., quale norma espressiva di un principio generale applicabile agli altri tipi di contratto diversi dalla locazione con i quali viene concessa l'utilizzazione temporanea di un bene dietro corrispettivo. E pertanto il Garofalo era tenuto a pagare la somma di L. 5.310.000, pari all'importo versato a titolo di canoni concessori per il periodo in discorso, rivalutata nel suindicato importo di L. 7.277.650.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Amministrazione Finanziaria deducendo un solo motivo. Resiste con controricorso il Garofalo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo di ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 115 e 191 c.p.c., 2697 c.c., nonché degli artt. 1591 e 1226 c.c., omissione o insufficienza di motivazione, si deduce che la Corte di Appello, dopo aver ritenuto incongrui, senza fornirne adeguata ragione, i criteri di stima adottati dall'UTE e recepiti dal primo giudice, ha illogicamente ed immotivatamente disatteso la richiesta dello stesso Garofalo di consulenza tecnica diretta ad accertare l'ammontare del danno subito dall'Amministrazione ed ha in modo altrettanto irragionevole ed acritico utilizzato criteri estranei alla fattispecie. Si sostiene in particolare l'erroneità dell'applicazione in via analogica dell'art. 1591 c.c., che regola una fattispecie del tutto diversa e che ha portato alla quantificazione di una somma assolutamente non rispondente ai criteri di valutazione del danno per occupazione abusiva di arca demaniale e così lontana da quella operata dall'Amministrazione, da apparire irrazionale ed in contrasto con i principi di equità comunque applicabili.
Il motivo è infondato.
Ed invero la Corte di Appello ha ritenuto con motivazione congrua e priva di vizi logici - e pertanto non censurabile in questa sede - l'inadeguatezza della valutazione operata dall'UTE del danno subito dall'Amministrazione rilevando l'assoluta genericità dei parametri utilizzati, nonché la non pertinenza dello specifico criterio concernente l'utilità economica conseguita dall'occupante, ed ha correttamente richiamato il principio di diritto secondo il quale la misura del risarcimento deve essere commisurata al danno effettivamente subito per la mancata disponibilità dell'immobile nel periodo di illegittima occupazione, da dimostrare rigorosamente secondo i principi regolatori dell'onere della prova.
La Corte territoriale ha ancora correttamente rilevato che in mancanza di più specifici elementi di quantificazione poteva farsi riferimento al canone di concessione in passato corrisposto dal Garofalo, come determinato dall'Amministrazione, in applicazione analogica dell'art. 1591 c.c.: a sostegno di tale convincimento la sentenza impugnata ha richiamato una risalente giurisprudenza di questa Suprema Corte - dalla quale non vi è ragione di discostarsi in questa sede - secondo la quale detta disposizione costituisce espressione di un principio generale applicabile a tutti i tipi di contratto con i quali viene concessa l'utilizzazione di un bene dietro corrispettivo, per le ipotesi in cui il concessionario continui ad utilizzare il bene oltre la scadenza del termine finale del rapporto senza averne più il titolo, corrispondendo in ipotesi siffatte al vantaggio che quest'ultimo consegue da tale utilizzazione un danno per il concedente, che ha come misura certa il corrispettivo periodico che era stato stabilito nel contratto, salva ovviamente la prova del maggior danno (v. Cass. 1977 n. 3067; 1974 n. 4310).
La ritenuta applicabilità di tale criterio ha chiaramente indotto la Corte di merito a ritenere non necessaria l'indagine tecnica sollecitata dallo stesso Garofalo: né la ricorrente ha motivo di dolersi di una carenza motivazionale al riguardo, atteso che, come è noto, l'omessa specificazione dei motivi di rigetto dell'istanza di consulenza tecnica non dà luogo a vizi di motivazione della sentenza quando dal complesso delle ragioni svolte risulti l'irrilevanza e superfluità dell'indagine richiesta, per avere il giudice tratto gli elementi di convincimento dalle risultanze probatorie già acquisite (v. per tutte sul punto Cass. 1997 n. 722).
Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso. Compensa le spese.